BREXIT, BRETURN, MENENIO AGRIPPA E IL DILEMMA DI JOHN STUART MILL
di Angelo Spena*
Le secessioni irrompono spesso fragorosamente nella cronaca. Quasi altrettanto frequentemente è la storia che si occupa di riassorbirle. “Nullam profecto, nisi in concordia civium, spem reliquam ducere; eam per aequa, per iniqua reconciliandam civitati esse”. Con le buone o con le cattive, bisognava riconciliare la plebe con le ragioni dello Stato, scriveva Tito Livio della prima secessione capeggiata da Sicinio appena finita la guerra con i vicini popoli Sabini, Volsci, Equi. Tra l’improvvisazione dei conati plebei e la subliminalità delle reazioni patrizie, l’apologo di Menenio Agrippa non sarà forse la falsariga su cui si sono incamminate le élites per neutralizzare Brexit? Il romano affrontò la plebe ammutinata sul Monte Sacro, spiegando che tutti sono necessari, ma utili solo se sinergici. “Fertur … flexisse mentes hominum”. Si racconta – conclude Livio – che Agrippa riuscisse con le buone maniere, per aequa, a far cambiare idea, oggi diremmo a invertire il sentiment, ai ribelli. Due millenni e mezzo non sono trascorsi invano. L’empirismo di finanzieri e policy makers britannici (e non solo) alle prese con la complessità del mondo moderno si va declinando oggi in modo più articolato, seppur non meno pragmatico. In una società non disponibile a una vera guerra civile, come era quella di Menenio Agrippa al pari oggi di quella britannica, non è inverosimile che le élites stiano recitando la loro parte nella storia, se non per aequa, dopo aver cioè lasciato per sufficiente tempo la scena a novelli tribuni della plebe da Jeremy Corbin a Nigel Farage, neanche per iniqua, cioè con le maniere forti per via parlamentare evocate da Amartya Sen sulla base delle prerogative che John Stuart Mill attribuiva a un governo rappresentativo. Ma, semplicemente facendolo votare nuovamente, il popolo, dopo averlo spaventato a dovere: Free Falling, Passport to Danger, Law and Desorder tanto per citare alcuni degli argomenti di questa moderna terza via che già dal tempo del referendum era stata ribattezzata, dai Brexiters, “Project Fear”.
Incuriosito dalla singolare epocale vicenda sulla quale l’intelligence economica si interroga senza una bussola da più di due anni, sin dal giugno del 2017 avevo espresso il dubbio se davvero la Brexit, a meno di variazioni imprevedibili di scenario – di un cigno nero per capirci – si sarebbe avverata mai. Alla luce del combinato disposto di tradizionale insularismo britannico e special relationship con gli Stati Uniti messa in discussione dalla dottrina Trump, Brexit mi apparve solo, e contingentemente, l’espressione di “un orientamento ben lontano dall’essere consolidato”. E che però, per dirla con il teatro di Eduardo, per i Remainers avesse “da passà ‘a nuttata”. Non restava cioè che tirare a far tardi, con mille inciampi. E infatti pare stia andando proprio così: la rupe di Gibilterra, la frontiera con l’Irlanda, il vallo con la Scozia, il voto anticipato … non si sta perdendo nessuna delle occasioni per frastornare quei milioni di sprovveduti rancorosi, di modo che tra qualche tempo, alla celebrazione del contro-referendum, ci pensino due volte prima di ripetere “Brexit!”.
Invero quello che Amartya Sen definisce “un referendum vinto con una scarsissima maggioranza e una gran quantità di informazioni false o fuorvianti” è la punta di un iceberg vagante in tutta Europa. Ma in versione britannica, anzi, inglese. “La forza intellettuale trainante alla base della Brexit è un mix di nazionalismo e ultraliberismo” sintetizza Tony Blair. Concetto recentemente precisato da W. Munchau sul FT: “La Brexit si fonda sostanzialmente su un non detto … L’energia che anima la Brexit è racchiusa nel brillante slogan della campagna del 2016 per l’uscita dall’UE: Take back control … ma il vero programma politico dei sostenitori di una Brexit dura, il loro sogno, non è cambiare il sistema di regolamentazione, ma completare il programma di deregolamentazione neoliberista avviato da Margaret Thatcher nel 1979! … Questo divario rende impossibile dire cosa i britannici vogliono, perché vogliono cose incompatibili. Oltretutto, chi è il popolo a cui il potere dovrebbe essere restituito? … gli inglesi si sentono sempre più inglesi piuttosto che britannici”. Dunque mentre in superficie si agitano le tattiche dei partiti, in profondità si sviluppano avvolgenti e subliminali strategie contrapposte, intuibili ma non decifrabili. Per i Remainers un siffatto contesto richiedeva che non fosse una soft Brexit. Sarà rispettata, eccome, la volontà del popolo, promise fin da principio Theresa May: Brexit? Means Brexit! E come strategia negoziale con l’Europa assunse un inopinato oltranzismo – no deal is better than a bad deal – che ponesse tutti di fronte alle proprie responsabilità.
Anno 2016. “Il popolo è sovrano, ma il popolo può anche sbagliare. Ecco perché la Brexit si ritorcerà proprio contro quelle classi meno abbienti che l’hanno votata” previde a caldo nel giugno 2016 Alan Friedman . E mentre l’anima oscura dei Brexiters, quella della finanza che gioca d’azzardo, rimaneva in agguato nell’ombra, il progetto dei Remainers prese forma: ci arriveranno da soli, quei velleitari neo-sottoproletari urbani, e quei sovranisti di provincia, a capire che hanno sbagliato. Dando ragione a De la Boétie (“il popolo sciocco si fabbrica sempre da solo le menzogne, per potervi poi credere”) dovranno fare mea culpa, vergognarsi della loro primordialità politica. E strisciare implorando “Breturn”. Così in preda al panico perderanno fiducia in se stessi e voglia di intromettersi negli affari della City. E la lezione sarà salutare per tutti gli altri insofferenti di città e di campagna, sparsi per l’Europa in cerca di guai, dai populisti senza cervello ai forconi italiani ai gilet jaunes francesi. (Forse purtroppo solo in questo e poco altro si può rintracciare, in quel simulacro di Europa politica di cui disponiamo, un grumo di visione comune, dalla Lituania alla Cornovaglia comprese.)
Anno 2017. “Il popolo ha votato senza conoscere che cosa significasse davvero la Brexit … ed è ora suo diritto cambiare opinione. La nostra missione è persuadere a farlo” uscì per primo allo scoperto nel febbraio del 2017 un redivivo Tony Blair rimasto a lungo in disparte dalla politica attiva, ma ben presto operativo sulla questione specifica. “La realtà economica comincia a riflettere le false speranze di molti britannici – gli fece eco solo quattro mesi dopo George Soros con calibrato cinismo – Le famiglie si accorgeranno presto che il loro tenore di vita si sta abbassando … i britannici si stanno rapidamente avvicinando al punto critico che caratterizza i trend economici insostenibili”. Blair e Soros avevano visto giusto. Il Cep, Centre for Economic Performance ha calcolato che l’incertezza legata a Brexit si è tradotta nel primo anno in un costo medio per le famiglie britanniche di circa 400 sterline; dato confermato recentemente dal Niers, National Institute of Economic and Social Research, che stima in 1000 sterline la prospettica perdita cumulata per ogni cittadino di Sua maestà.
Anno 2018. “Brexit si torna indietro? C’è chi dice che i mercati non aspettano altro” . E chi invece sostiene che “dal punto di vista finanziario, finora la Brexit è stata praticamente un non-evento, fatta eccezione per il mercato valutario”. Anzi , “tra gli operatori dell’asset management non sono pochi quelli che ritengono la Brexit anche un’opportunità di crescita e consolidamento per il settore”. E mentre la Cbi, la Confindustria britannica – che pure strategicamente avrebbe preferito rimanere nella UE – nello sconcerto (“un orrore vedere i politici concentrarsi su dispute tra fazioni”) chiede di approvare l’accordo tal quale pur di por fine alla incertezza a breve termine, unica sacrosanta preoccupazione degli industriali sotto tutte le latitudini, i politici dal lungo afflato scoprono via via le loro carte: “il deal firmato dal premier Theresa May è una via di mezzo che non piace a nessuno … ci troviamo di fronte a un’impasse che può essere sbloccata soltanto da un secondo voto” ha recentemente rincarato Tony Blair. Per i più idealisti, un secondo referendum sarebbe il seppellimento definitivo del sogno umanistico; per i più pragmatici, la dimostrazione illuministica di quanto potentemente un percorso politico ben pilotato possa dissimulare l’esercizio del dominio. Una liturgia da “Sacro Graal del suffragio universale” avrebbe commentato in punta di sarcasmo Karl Marx. Di più: sarebbe il superamento in chiave moderna dello scandaloso postulato di Etienne de la Boètie, secondo cui il potere si può perpetuare facendo leva su autocostrizioni interne alla psicologia delle masse, che ne giustifichino la sottomissione. In fondo, è lo stesso cammino involutivo che duemilacinquecento anni prima aveva mutato la originaria sostanza in mera forma: la rivoluzionaria magistratura dei tribuni della plebe, nata dal compromesso negoziato da Menenio Agrippa sulle rive dell’Aniene, era stata stravolta dalla strategia globale dell’Urbe caput mundi: “non dimenticavano nemmeno, gli imperatori romani, di assumere regolarmente il titolo di tribuno della plebe … Sotto la tutela dello Stato, si assicuravano così la fiducia del popolo” . (Quante volte si rafforza, nella storia, prima l’idea e poi la ragione di Stato, quando insidie interne o esterne a collettività e assetti consolidati ne evocano la necessità).
Studiosi di scienze politiche e di economia politica, di storia e di quant’altro si occupi del potere: seguite attentamente tutta questa vicenda, non fatevi distrarre da giri di walzer e piroette di palazzo, o fuorviare da catastrofistiche dichiarazioni a uso dei media. Brexit solleva il velo sull’essenza del governo nelle democrazie, superando il drammatico dilemma di Stuart Mill: rispettare l’incompetenza delle masse o promuovere la competenza delle élites. Prendete buona nota: tertium datur. Sarà un laboratorio di sottile strategia politica, una miniera di esperienza scientifica: in questi anni potrebbe essere scritto un capitolo magistrale del manuale a uso delle élites liberal su come raggirare, al tempo del web e del globalismo, chi il potere non ce l’ha e crede davvero che gli possa cadere dal cielo. Una lezione su come gestire sul territorio la democrazia da fare invidia a Machiavelli, Hobbes e Chomsky. A Londra come a Bruxelles e Strasburgo, seguite coscienziosamente il dipanarsi del fil rouge di questa esemplare vicenda, teso con simmetrica accortezza tra l’Isola e il Continente. Anche la UE è infatti – forse con la sola parziale eccezione della Francia, che del Regno Unito ha simmetriche ambizioni geopolitiche e soffre comparabili conflitti tra città capitale e province – parte del giuoco: l’opzione di un secondo referendum è stata rafforzata dal verdetto del 4 dicembre 2018 della Corte di Giustizia europea su un caso sollevato mesi fa da alcuni deputati anti-Brexit, secondo il quale Il Regno Unito è libero di revocare unilateralmente la notifica della sua intenzione di ritirarsi dall’Unione Europea. Perché altrimenti, fin dal novembre del 2017 il presidente del Consiglio europeo Tusk avrebbe inopinatamente offerto sponda, dichiarando che spettava a Londra scegliere tra “un buon accordo, nessun accordo o – attenzione! – nessuna Brexit”; e Keir Starmer, ministro-ombra per l’uscita dalla UE, a distanza di meno di un anno avrebbe risposto confermando “nessuno esclude l’opzione di restare nellaUE”? Un giuoco delle parti degno della lucida follia dell’Enrico IV di Pirandello. Insomma, Breturn con un secondo referendum si ritrova oggi – a meno di cigni neri e sempre che nel frattempo non sia l’Europa a disgregarsi da sé con le elezioni del prossimo maggio – in ben sperimentate mani politiche. Anche perché nel frattempo, secondo i sondaggi, in un solo anno la percentuale di desiderosi di un secondo referendum pare sia già cresciuta dal 35 per cento del novembre 2017, al 48 per cento del giugno 2018, e al 62 per cento del novembre 2018.
Voi dite di no? Allora spiegateci: con tutti i guai in cui continua a inciampare, secondo voi Theresa May, da che parte sta? Al deputato conservatore D. M. Davis, segretario di Stato per l’uscita dalla UE, che aveva affermato , prima di dimettersi nell’estate 2018: a democracy that cannot change its mind ceases to be a democracy, la premier ha recentemente ribattuto: “il voto c’è stato, nel 2016. Un secondo referendum sarebbe un voto dei politici, che dicono agli elettori che si erano sbagliati, e devono rifare tutto. Questo farebbe gravi danni alla fiducia nella democrazia”. Il cerchio si chiude. La tetragona Theresa May svela così la sua interpretazione blindata della vicenda, in cui la coerenza estrema prefigura la punizione esemplare: summum ius, summa iniuria. Non sarà forse vero che le procedure democratiche siano puramente formali (“se votare facesse qualche differenza, non ce lo farebbero fare” era l’iperbole provocatoria di G.B. Shaw), tuttavia spesso “bisogna proteggerle dalla tirannia di una minoranza ricca e potente” . “In un modo o nell’altro, la Gran Bretagna proseguirà sulla strada di una forte unione economica con l’Europa” conclude assertivo Amartya Sen. Questo, per gli investitori di lungo termine, è l’essenziale. Certo, quale che sia la vostra concezione di studiosi della storia, ben sapete che mai nulla è lineare, e che la molteplicità delle spinte e forze concorrenti, al protrarsi dei tempi della azione, può offrire opportunità crescenti alla eterogenesi dei fini. Forse la chiave di spettacolo meglio di altre può dischiudere, al di là delle estemporanee contorsioni in cui lo psicodramma britannico si va avvitando sul palcoscenico (ma molto meno – io sospetto – dietro le quinte), la comprensione di questa vicenda. La premier britannica non avrà letto forse tutto Machiavelli, però in fondo almeno un po’ di teatro del miglior Shakespeare – il quale, oltretutto, di antica Roma ben si intendeva – lo sta reinterpretando. Soprattutto se l’orientamento di Trump, anziché velleitario ed effimero, dovesse rivelarsi – anche inconsapevolmente – precursore di nuove necessarie strategie globali, e se la UE dopo le elezioni non rischierà di implodere, allora apparirà sempre più verosimile che ci sia stato del metodo, in questa follia.
Roma, 5 gennaio 2019
* Angelo Spena
Prof. Ordinario di Gestione ed Economia dell’Energia e Fonti Rinnovabili presso Dipartimento di Ingegneria dell’Impresa – Università degli Studi di Roma Tor Vergata
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